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mercoledì 14 dicembre 2016

La grande lezione di Ezra Pound agli usurai internazionali di ieri e di oggi





di: Luca Bistolfi

«Libertà di parola senza libertà di parola alla radio vale zero». Versi profetici su cui non è si ancora meditato abbastanza e che, come tutte le profezie, se lette bene, hanno valore eterno. Quando Ezra Pound li impresse nei suoi Cantos era già un emarginato, un nemico pubblico e sapeva bene quel che diceva.

In quei primi anni del Novecento la radio aveva identica funzione che oggi ha la televisione. Era il megafono, il mezzo di comunicazione e di diffusione per eccellenza. (Si illude chi ritiene sia ai nostri tempi la Rete, utilizzata per informarsi da una minoranza di cittadini, anche solo per il semplice fatto che, da una certa età in su, molti non hanno l’elaboratore elettronico e che comunque si informerebbero con Internet dalle stesse fonti ufficiali e accreditate che passano in tv).



Possiamo pertanto attualizzare le parole di Pound dicendo che oggi «libertà di parola senza libertà di parola in televesione vale zero». E questo alla faccia della democrazia.

Sebbene tutti oggi possano dire la loro, con siti e blog, fondando case editrici domestiche, facendosi stampare libri su richiesta e pagando non pochi danari, parlare al bar, scrivere lettere ai giornali, tenere convegni e conferenze, resta su tutto che ognuno di questi mezzi ha lo stesso peso e la stessa ricaduta pubblica degli speaking corner di Hyde Park. Qualcuno ti ascolterà e nessuno ti impedirà di parlare, ma si conviene che c’è una bella differenza tra quel posto e anche solo cinque minuti alla Bbc o alla Rai, o anche solo su qualche televisione privata. Qualcuno potrà anche dire si tratti d’una ovvietà, quella che sto dicendo, addirittura d’una banalità. Ma si tratta d’una banalità che mai è posta in dovuto risalto, mai si pensa a quei versi poundiani, ma anzi si blatera sempre, e sempre dalla televisione o in ogni caso da megafoni potenti e diffusi, di libertà di parola.





Pound poté peraltro parlare alla radio e sono, i suoi discorsi, tra le pagine più belle del genio statunitense. Ma poi il suo stesso Paese, il campione mondiale di libertà e democrazia, lo ripagò come credeva meritasse: prima il campo di concentramento, vissuto in una gabbia, poi il manicomio criminale di St. Elisabeth, per tredici anni.

Oggi invece accade che chiunque può parlare, ma da casa propria o da un angoletto inascoltato, e non può accedere a nessun mezzo di comunicazione ufficiale o quanto meno non relegato negli ultimi (re)cessi pubblici, se solo abbia qualcosa da dire di non comodo per i padroni delle ferriere, tra cui, appunto, anche i detentori delle notizie.
Già Pasolini, uomo di sinistra e ammiratore di Pound, sparò in faccia a un Enzo Biagi che intanto faceva lo gnorri: in televisione non si può dire la verità. Ecco, Pasolini aveva capito anche che, per quanto tu possa arrivare persino al megafono principale, certe cose non le potrai mai dire. E l’autore degli Scritti corsari e delle Lettere luterane fece la fine che fece non a causa di quanto la vulgata smercia come verità, ma perché qualche verità la disse e, soprattutto, la sapeva e gli fu impedito di dirla.

È certo che siamo davvero in troppi, e da molti anni, a scrivere e a parlare e che non ci può, non ci deve esser spazio per tutti. Le pulci non hanno la tosse, anche se a chiacchiere i reggicoda della democrazia sostengono il contrario con le loro facce di palta. Ma è sin troppo evidente che a parlare in fondo son sempre gli stessi, arrivati più o meno tutti con gli stessi metodi paramafiosi, e seguiti da loro cloni o giù di lì. Ed è altrettanto vero che oggi qualsiasi sgallettato con la bocca ancor sporca di latte materno, con cento euro apre una pagina virtuale e ci scrive le minchiate che vuole, tanto per dar libero sfogo al proprio ego. Quello stesso ego, per inciso, che la televisione e in generale i mezzi di comunicazione à la page, ormai degenerati da anni, da altrettanti anni incentivano.

Tuttavia resta che teste pensanti e oneste a certi livelli non arrivano, nemmeno da lontano. Se lo facessero, state pur certi che avrebbero perso per strada la loro autenticità e la loro scomodità. Può anche accadere (il sistema ha qualche piccola falla) ci arrivino piuttosto immacolati, ma saranno ricacciati giù all’istante, nei bassifondi, allo speaking corner.




I casi di libertà di parola alla radio, per restare alla metafora poundiana, sono rarissimi. E sono, in un modo o nell’altro, funzionali al sistema: o perché fingono di combatterlo o comunque di fargli la fronda, oppure perché lo stesso sistema – e quello democratico è l’unico a ragionar così – glielo consente al fine di dare ai candidi un’apparenza di pluralismo. Si tratta pertanto di un inganno, né bello, né buono.

E si badi: gli stessi che hanno apparecchiato questa modalità e che la nutrono, sono i medesimi i quali si strappano i capelli e starnazzano, bava alla bocca, se un capo di Stato fa cecchinare una giornalista ritenuta scomoda. Come fu il caso della Politkovskaja. Tutti accusarono Putin – peraltro senza nessuna prova, in perfetto stile demo-sovietico – di essere il mandante. Poi tacquero quando un regolare processo dimostrò che le accuse di tre quarti, se non di più, della stampa mondiale erano infondate calunnie. Con tutti i riflettori del mondo puntati addosso e con, appunto, i mezzi di comunicazione dell’orbe terracqueo contro, Putin era l’ultima persona a poter ordinare quell’assassinio, che pare piuttosto una polpetta avvelenata di qualche nemico del presidente russo per metterlo nei guai e guastarne l’immagine, come se poi si trattasse d’un novellino e non di un ex colonnello del Kgb.

Ma al di là di questo, quel tipo di indignazione dei giornalisti e degli intellettuali per quell’episodio, esemplare di molti altri nella storia, sparisce allorché sono coinvolti colleghi e intellettuali di casa loro, ai quali è impedito di parlare e a cui si commina di fatto, nel complice silenzio di tutti, una morte che per certi versi è identica a quella fisica: la morte civile. Qual è infatti la differenza tra quel trattamento e quello riservato a Pound? Perché giornalisti accreditati e stimati (penso per esempio a Maurizio Blondet) da un giorno all’altro sono costretti al ritiro a vita privata?

Se un Mussolini o uno Stalin liquidano qualche cervello scomodo, è scandalo, indignazione, vendetta. Se ad agire nello stesso modo (in sostanza, con la differenza che gli attuali padroni del vapore vestono in giacca e cravatta e hanno il patentino, consegnatosi da se stessi, di democratici) è un presidente americano o un editore italiano o un banchiere con partecipazioni in qualche televisione o giornale, nessuno si lamenta, se non solo quelli privati della possibilità di parlare. L’unica eccezione è costituita da certi casi, per esempio quello emblematico di Biagi, Luttazzi e Santoro. Tutti fecero la voce grossa, accusando Berlusconi di fascismo mediatico e altre simili imbecillità: erano però gli stessi che ancora adesso non fiatano in tutti gli altri casi.

Sono realista: ogni regime, ossia ogni sistema ha il diritto e il dovere di tutelarsi come ritiene giusto. Ma c’è una differenza sostanziale: nessun regime autoritario si è mai riempito la bocca di libertà, diritti, pluralismo e agirà come più gli aggrada per tutelare gli interessi dello Stato. Invece la democrazia assume le sembianze della verginella pura e innocente (davanti, perché dietro ci è passato di tutto), e impartisce lezioni di moralità, persino retroattive, a dritta e a manca.

Inoltre – ed è un punto essenziale – un regime tutela, giusta o sbagliata che sia, un’idea che unifica un intero popolo e che lo fa marciare unito. Mentre in democrazia la lotta e l’esclusione è tribale, si svolge tra cupole e camarille, siano esse partiti, circoli economici, banche, industrie, editori, poteri extranazionali, più una serie di ibridazioni.
Se volessi farmi violenza, direi che nemmeno qui ci sarebbe niente di male. Ma varrebbe ugualmente quanto detto sopra: almeno la smettano di far la morale, distribuire attestati di legittimità e liceità, frignare. Insomma: siano onesti e dignitosi come lo sono i sempiterni “cattivi” di turno.


Fonte: Il Discrimine

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