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mercoledì 2 dicembre 2015

Le decisioni delle oligarchie mondialiste gravano su tutti noi



di: Maurizio Blondet

Le prossime due settimane cambieranno il mondo, annuncia il Telegraph. Non solo perché i “leader mondiali” sono riuniti a Parigi per piegare il clima alla finanza speculativa, onde farlo rendere. Ci sono tre eventi decisivi che avranno luogo. A porte chiuse, naturalmente. 

Draghi riprende il bazooka. L’enorme stampa di moneta che ha fatto finora, che ha ridotto il costo di indebitarsi sotto il tasso d’interesse zero, avrà portato “nove mesi di calma finanziaria” come dice il giornale dell’Establishment (uno dei tanti); ma non è servito assolutamente a frenare la deflazione nella zona euro, che s’avvita su se stessa anche per il crollo dei prezzi petroliferi. Il circolo è vizioso e si auto-alimenta: più la deflazione si rafforza e meno ci s’indebita e si spende. Le banche non prestano, si tengono i denaro che la BCE produce a manetta, le imprese non chiedono prestiti, le famiglie nemmeno.


La BCE ha fallito il suo compito – doveva mantenere un’inflazione del 2 per cento – e farlo molto, molto prima, quando la deflazione si manifestò: i tedeschi l’hanno vietato, per loro non c’era alcuna deflazione – e lo negano ancor oggi. Quindi, nuovo quantitative easing, ossia più dei 60 miliardi al mese che aveva annunciato all’inizio dell’anno. Questo, se i tedeschi saranno d’accordo. Il che non è detto.


I criminali internazionali,(fantocci degli usurai mondialisti della terra) si sono radunati a Parigi al summit Cop21 dove discuteranno del cambiamento climatico; gli stessi che inquinano con le multinazionali e devastano in ogni dove il pianeta,devastano i cieli con il rilascio di scie chimiche, affamano i popoli, creano guerre di invasione dove si sono usate anche armi all'uranio ( un esempio dei tanti), vorrebbero fare credere che salveranno il pianeta dall'inquinamento che essi stessi alimentando.




L’Opec decide sul greggio

L’Opec, il gruppo dei paesi produttori di greggio, si riunisce venerdì 4 dicembre per decidere se continuare la sua guerra dei prezzi. In pratica devono decidere i livelli di produzione di ciascuno. La guerra è stata sferrata dal produttore massimo e coi costi minori, l’Arabia Saudita, per stroncare i concorrenti (Usa, quelli del gas di scisti, con alti costi di estrazione); la guerra è continuata per togliere alla Russia i mezzi finanziari per la sua politica internazionale. Il Brent, che nel giugno 2014 era ancora a 115 dollari a barile, è a 45.
A questo prezzo, le industrie di shale americane sono decotte. 

E siccome si sono riempite di debiti per continuare a lavorare sperando in un rialzo, la loro insolvenza può benissimo devastare il sistema del credito: sono debiti pari a 1,5 trilioni, ossia 1500 miliardi di dollari, prestati a una industria che accumula perdite su perdite, licenzia, chiuse campi estrattivi. Ma non è la sola. Nel Mare del Nord, Gran Bretagna e Norvegia hanno tagliato 65 mila posti di lavoro. Il fisco britannico ha visto calare del 94% l’introito tributario che gli veniva dalle petrolifere. 



Non ci sono più gasometri e petroliere per conservare il petrolio; tutte già piene, le riserve scoppiano. La domanda è oltretutto calata grazie alla deflazione e recessione più grave del secolo. Il peggio è che l’industria ha troncato i progetti d’investimento dovunque: di 220 miliardi di dollari. Il che significa che un giorno il greggio tornerà scarso perché sempre meno lo estraggono, e allora il prezzo salirà alle stelle. E’ uno dei motivi per cui l’abbandono di questi prezzi al “mercato” è un atto criminale e demenziale, ed è bene (come fece Mattei) stipulare coi produttori accordi di lungo periodo assicurando una costanza di costi per gli utilizzatori, e di introiti per i produttori. Ma ormai questo buonsenso non ha più corso.
La monarchia saudita ha dilapidato il 90 per cento delle sue riserve monetarie per tappare il buco dei mancati introiti e le spese (fra cui quelle belliche, Yemen ed ISIS) crescenti. Ma può andare avanti ancora per 5 anni, se vuole.




La FED (forse) stringe. Forse no. 

Il 16 dicembre la riunione della Federal Reserve per decidere se alzare i tassi – per la prima volta dal 2006. Forse. Se osa. Vero è che il dollaro a fiotti e gratis ha creato bolle su bolle, distorto i prezzi dei titoli, gli interessi zero stanno rovinando assicurazioni e fondi previdenziali che hanno bisogno di rendimenti piuttosto alti per pagare i risarcimenti e le pensioni – cifre del 4%, oggi pura fantasy. Ma è anche vero che in questa deflazione-recessione (il 20% degli americani mangia grazie ai food stamps, e spende grazie alle carte di credito revolving) un rincaro del costo del denaro farebbe colare a picco l’economia, non solo Usa. 




Janet Louise Yellen presidente della Federal Reserve dal 3 febbraio 2014,di originie ebraica come tutti gli altri suoi predecessori  alla guida della banca centrale americana privata e usururaia FED.


Il costo del prendere a prestito in Usa è già salito”, dice il Telegraph; “i rendimenti dei Treasuries (i Bot) a due anni hanno raggiunto il livello più alto nei cinque anni precedenti. Rafforzamento del dollaro e i rendimenti crescenti dei buoni del Tesoro provocheranno una vasta redistribuzione di capitali, in quanto l’attrazione dei mercati emergenti diminuisce in favore degli Usa”. Ossia la finanza speculativa risucchierebbe istantaneamente i suoi ‘investimenti’ in paesi come il Brasile per metterli in Bot americani. I prezzi delle materie prime cadranno anche di più di quanto sian caduti fino ad oggi, aggravando tutto: deflazione, panico, scoppio di bolle, rovina e fame nei paesi emergenti ed anche nei mercati di Londra dove un quarto delle quotazioni dipende dalle materie prime. Comunque faccia, la signora Yellen farà male. 

Ciò perché la superpotenza s’è incatenata da sé nel “dilemma di Triffin”.

wikipedia.org

Che consiste in questo: che il Paese che emette la moneta di riserva mondiale scopre che quel che i “mercati mondiali” esigono da lui è il contrario di quello di cui ha bisogno l’economia sua, nazionale, e le chiedono i gestori della politica economica in patria e l’opinione pubblica. Queste ultime esigono un forte impulso all’export, ossia un surplus commerciale. I mercati mondiali invece chiedono al Paese emettitore di mantenere un enorme deficit commerciale, ossia che importi tutto ciò di cui ha bisogno pagando coi dollari – carta straccia – ma serve al mercato-mondo per trafficare. Il deficit americano deve essere tanto più enorme quanto più è grande la domanda globale della sua valuta, e questa è titanica, grazie appunto alla globalizzazione imposta dagli Usa. 

Le imprese Usa vogliono il dollaro debole per esportare di più; i detentori esteri di dollari lo vogliono forte perché se una moneta di riserva mondiale non mantiene il suo potere d’acquisto negli anni, che riserva è?
Per questo la banchiera centrale americana, la piccina signora Yellen, è paralizzata. Tanto più se l’euro viene ulteriormente abbassato da Draghi…E Draghi farà meglio di lei? Ne dubita perfino il Telegraph: “I banchieri centrali non hanno alcuna idea di come i mercati reagiranno”, conclude. Adiamo bene. E’ il sistema al capolinea. 

Ovviamente quando non sa cosa fare, il Sistema americano trova che la guerra è una cura efficace. Davvero, le due settimane saranno decisive. 








UE, il despotismo dei dementi 

 

 

Come si prepara la UE? Qualche spunto.


Salvare Daesh da Putin”. A questo scopo, persino la Germania è pronta a mettere scarponi sul terreno in Siria: manderà 1200 soldati. A Londra è in corso la demonizzazione di Jeremy Corbyn, che ha ordinato ai suoi parlamentari laboristi di votare contro i bombardamenti sulla Siria voluti da Cameron, anche a costo di scissioni nel partito (che è in gran parte il partito di Tony Blair, ossia del bomb-bomb-bomb dove dicono gli americani). 

Tuttavia i militari hanno detto a Cameron: abbiamo solo 8 Tornado operativi, che già bombardano la Siria (pardon, l’ISIS) dalla base di Akrotiri a Cipro; possiamo aggiungerne due o 4, ma per fare le cose con un minimo di serietà ne occorrono 24. E non li abbiamo.
francais.rt.com

Il che la dice lunga sullo stato delle forze della NATO, mentre la NATO minaccia Mosca e le mostra i suoi muscoli. Forse era meglio non far vedere ai russi a cosa si riducono i muscoli. Visto che siamo così decisi a farcene un nemico. Per intanto, da quando Mosca – come risposta all’abbattimento del Sukhoi – ha piazzato in Siria al confine turco gli SS_400 (che possono agganciare fino a 36 aerei), Usa e Turchia non sorvolano più la Siria per “bombardare l’ISIS”. Lo fanno in Irak, ma in Siria no. Così Erdogan ha finalmente la sua sospirata “no-fly zone” sulla Siria; solo che non è lui dalla parte giusta. 

Erdogan s’è tolto una soddisfazione al prezzo di una batosta politica il cui conto aumenta di giorno in giorno: ora le imprese turche non esportano più in Russia, i turisti russsi non arrivano più ad Antalya, è un disastro. Senonché, qualcuno sta dalla sua parte. E chi, se non l’Unione Europea?




L’UE compensa Ankara per le sanzioni russe

L’UE si appresta a pagare alla Turchia non 3 (per i profughi), ma 30 miliardi di dollari. Ciò per compensare le perdite che al paese ottomano hanno inflitto le sanzioni imposte da Putin dopo l’abbattimento del Sukhoi. Siccome i nostri oligarchi la vogliono ammettere nella UE, dovranno per forza trovare il modo di compensare le perdite che l’economia turca subisce dal taglio dei rapporti con la Russia: almeno 30 miliardi. Solo il turismo russo ne vale 4. “Voglio un accordo con la Turchia>”, ha appena detto Hollande; “L’obiettivo è che l’Europa aiuti la Turchia e la Turchia prenda certi impegni – una cooperazione più stretta con la Turchia per lottare contro i traffici, per agire contro il terrorismo…e trovare una soluzione per la Siria”. Così ha detto Hollande. Quello stesso Hollande che, appena emerso dall’incontro con Putin, nella conferenza-stampa ha ripetuto: “Assad must go”.
Quindi nessun accordo con Mosca. Ma con Ankara, e la sua Famiglia di trafficanti, sì. 

Chissà come sarà contenta la Finlandia, di aiutare i turchi. Mi direte: che cosa c’entra?





Finlandia rovinata dall’euro

Il Pil della Finlandia è calato dello 0,3 per cento dal 2015, mentre quello della zona euro è salito di 2,9%. Gli ordini industriali sono crollati (di un altro) 31% a settembre. La disoccupazione cresce a ritmi più alti che quelli europei. “Siamo nella stessa situazione dell’Italia, abbiamo perso un quarto delle nostre imprese”, dice l’eurodeputato Paavo Väyrynen, “il nostro costo del lavoro è troppo alto…”.

Eppure la Finlandia è stato l’allievo modello, indicato dagli insegnanti tedeschi come l’esempio che noi cicale dovevamo imitare. Il suo debito pubblico è il 62% del Pil, meglio che la Germania. Nell’Indice della Competitività globale del World Economic Forum, è al primo posto in Europa. E’ prima al mondo per l’alto livello d’istruzione dei lavoratori, leggi favorevoli al business, ingegneri e scienziati quanti ne volete, protezione della proprietà intellettuale…insomma quelle caratteristiche che dovrebbero “attrarre gli investitori esteri”. Che invece non arrivano.

La Finalndia è la vittima esemplare della moneta che ha incautamente adottato. Da allora, non fa’ che perdere terreno e perdere quote di mercato ( Nokia è una maceria fumante); e non può svalutare, e in piena recessione è obbligata a tagliare i salari e ad austerità demenziali ordinate dalla Germania e dalla UE; deve rispettare il Patto di Stabilità come tutti altri noi pecoroni. 

Che sia proprio l’euro la sua rovina, lo mostra l’esempio della vicina (e per molti versi simile) Svezia: nel 2008 ha subito la crisi mondiale come tutti, ma non avendo aderito all’euro, ha “pilotato” la sua valuta. Il risultato: economia in crescita del 6%, mentre quella della Finlandia è colata a picco. Adesso il governo in carica ha annunciato una riduzione dei salari del 5%, provocando il primo sciopero generale dal…1956. E il suddetto Paavo sta raccogliendo firme per far uscire il paese dall’euro.

Ossia da una oligarchia di despoti, oltretutto, dementi.

telegraph.co.uk

 

 

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